IL NUOVO RAFA DI SPAGNA SI CHIAMA JODAR

Vincitore dello US Open junior e reduce da un semestre all’università americana, Rafael Jodar sta mostrando tutte le sue qualità all’ASPRIA Tennis Cup: un tennis acerbo ma già dirompente lo ha spinto nei quarti. Sarà lui il nuovo fenomeno sbocciato all’Harbour Club?

Vedendolo giocare, c’è la sensazione di ammirare un diamante grezzo. La palla di Rafael Jodar (con accento rigorosamente sulla “o”, tiene a precisare) è di quelle che rapiscono, che non c’entrano granché con la realtà dei tornei Challenger. L’ASPRIA Tennis Cup – Trofeo BCS (91.450€, terra battuta) è soltanto il quarto torneo stagionale per il 18enne spagnolo, che con Nadal ha in comune soltanto il nome di battesimo. Per il resto, i 190 centimetri di altezza lo rendono un giocatore più adatto ai campi veloci, gli stessi su cui ha vinto lo US Open junior. Dopo la netta vittoria contro Lorenzo Giustino, il madrileno ha vinto in rimonta (4-6 7-5 6-1 lo score) contro il portoghese Tiago Pereira, solido regolarista che indossa un curioso completo che ricorda… Spiderman. Lo spagnolo è stato bravo a vincere il secondo set: avanti 5-3 e servizio, sul 30-30 ha lasciato passare una risposta del portoghese: l’aveva valutata fuori, invece gli è rimbalzata sulla riga, proprio sotto gli occhi. In quel momento si è disunito e ha permesso al portoghese di agganciarlo.

Sul 6-5 in suo favore, tuttavia, Jodar ha tirato tre risposte fantastiche, una più bella dell’altra, che lo hanno portato a setpoint. Sull’ultimo punto del parziale, il portoghese ha commesso un doppio fallo. Il terzo set è stato uno show di Jodar, che nei quarti di finale se la vedrà con il francese Arthur Gea. “Sapevo che Pereira mi avrebbe reso la vita difficile e così è stato – dice Jodar – ha giocato un match intenso, mi ha brekkato all’inizio e poi c’è stato molto equilibrio. Alla fine la partita è stata decisa da pochi dettagli nei momenti chiave”. Anche se viene da un semestre a Charlottesville, laddove ha studiato e rappresentato l’Università della Virginia, lui è madrileno e sta cercando di rilanciare la tradizione tennistica di una città che non ha mai avuto troppi giocatori, comunque meno rispetto ad altre città, non solo Barcellona. “Non ci avevo fatto caso, in effetti è vero – riflette – nel recente passato ci sono stati Feliciano Lopez e Fernando Verdasco, ma adesso stanno uscendo tanti giovani di Madrid. Non saprei dire perché, ma adesso c’è Martin Landaluce e quando torno a casa ne vedo molti con un buon livello e un buon ranking”. Jodar ha qualcosa in comune con Lorenzo Musetti: l’aver iniziato a giocare letteralmente in casa. Se il carrarino ha tirato i primi colpi nello scantinato della nonna, lui in un garage di Leganes, sobborgo di Madrid.

 

 

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ROOKIE OF THE YEAR

È vero! Avrò avuto 3-4 anni e ho iniziato a giocare nel garage di casa. Vedendo la mia passione, mio padre mi ha iscritto al Club de Tenis Chamartin e lì ho iniziato a evolvermi come giocatore. Adoro lo sport, mi piacciono tutti, ho giocato a calcio e l’ho lasciato per dedicarmi al tennis, ma in generale ritengo che fare sport sia bello e sano. Inoltre quello che fai per svilupparti sul campo lo puoi applicare nella vita. In fondo è questo il mio obiettivo”. Vedendolo giocare, non si direbbe che è spagnolo: i colpi sono piatti e potenti, il servizio viaggia a meraviglia. Il diretto interessato, accompagnato a Milano dal giovane coach Alberto Romero (classe 1997 ed ex n.583 ATP), ammette di dover migliorare la mobilità.

In questi mesi mi sono sviluppato, sono cresciuto come giocatore , ho giocato tante partite, so su cosa devo migliorare. È un processo, ognuno ha il suo, e può anche essere lungo. Per me è importante sapere cosa devo migliorare e, soprattutto, divertirmi sul campo. Quando parla di “tante partite”, Jodar allude al semestre trascorso in Virginia, laddove ha rappresentato i Virginia Cavaliers ed è stato nominato Rookie of the Year. A differenza di Joao Fonseca, che ha optato per il professionismo dopo aver firmato una lettera d’intenti con la stessa università, lui ha scelto di vivere l’esperienza oltreoceano. “Sono arrivato a gennaio e mi sono dovuto adattare rapidamente, perché dopo 15 giorni ero già in campo per la prima partita – racconta – mi sono trovato molto bene, sono contento di com’è andata. Ho conosciuto ottime persone e mi sono fatto nuovi amici. Consiglio a tutti questa esperienza, perché continui a svilupparti come giocatore, ti alleni molto e trovi coach che hanno davvero a cuore le sorti della squadra”.

IMPARARE DAGLI ERRORI

Quando gli chiediamo se ha progetti per la prossima stagione, risponde con un laconico “non so ancora cosa fare”. La sensazione è che si concentrerà sul tennis, soprattutto se dovessero arrivare i risultati. Se è vero che negli USA ha raccolto un bilancio di 19-3 nei singolari, lo spagnolo ha vissuto anche qualche momento difficile. Come nel match contro la Stanford University, quando è stato squalificato durante un match contro Samir Banerjee. “Avevo vinto il primo set ed eravamo più o meno in parità nel secondo – è la sua versione dei fatti – a un certo punto mi sono saltati i nervi e ho tirato una pallata. L’arbitro ha pensato che fosse stato un colpo deliberato per colpire le persone in tribuna. Sapevo di aver sbagliato, ma dagli errori si impara. Ho imparato la lezione, di certo non accadrà più. Questo episodio è stato importante per evitare di farlo in futuro”.

Grande tifoso del Real Madrid, dopo il successo allo US Open dello scorso anno è stato ricevuto dal sindaco di Madrid e ha potuto conoscere Jude Bellingham durante una visita al Santiago Bernabeu, ma non dimentica le origini. “La persona più importante della mia vita è sicuramente mio padre: è stato lui ad avvicinarmi allo sport. Voleva che ne praticassi molto, non importa quale, alla fine ho scelto il tennis. È lui a prendersi cura di me, anche se ovviamente è importante anche la mia famiglia. Voglio ricordare anche i miei amici, sia in Virginia che a Madrid: quando sono con loro non penso al tennis, ed è fondamentale: se ci pensi troppo diventa stressante e ti puoi bruciare la mente. In questo senso, anche lo studio è importante”. Se qualcuno ha pensato che si chiami Rafael in onore a Nadal, resterà deluso: il pensiero è legittimo, visto che è nato quando il maiorchino aveva già vinto due Roland Garros, ma è così semplicemente perché è lo stesso nome del padre e del nonno. Quando gli diciamo che Nadal ha vinto il suo primo Challenger in Italia (Barletta 2003), sorride. “Mi piacerebbe imitarlo, ma domani ho una partita dura. Sarà molto bella e sono già concentrato su quello”. Nella sua mente non c’è altro.

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